L’ultima visita | Nadia Yassine
di Nadia Yassine [figlia dell’imam Abdessalam Yassine, pace alla sua anima]
Nove anni ci sono voluti prima di osare tuffarmi nel mare tempestoso di ricordi in cui s’intreccia ciò che è pubblico con ciò che è privato. Un certo pudore indubbiamente me lo ha impedito, ma soprattutto un lutto che non è stato elaborato.
Come se si potesse elaborare il lutto per un sole che riempiva i nostri cuori, illuminava gli angoli bui delle nostre anime, riscaldava le nostre vite quando faceva freddo, buio e i temporali minacciavano da ogni parte. Un solo sguardo da lui ed era primavera! Il suo sorriso, che come una seconda natura non lo abbandonava mai, era un balsamo per le inevitabili ferite della prova terrena.
Egli era quell’orecchio attento, quel cuore di immensa bontà che non giudicava mai le nostre debolezze; che accoglieva i nostri dubbi e le nostre pene, le nostre ingenue gioie, le nostre chiacchiere, spesso inutili e indegne della sua statura di saggio e di erudito. Egli era questa misericordia che ne ricordava un’altra, ancora più immensa: quella di Dio… “Vederli è essere nel ricordo di Dio” dice l’hadith a proposito dei santi. Era esattamente così!
Qualche giorno prima della sua dipartita per l’altro mondo, quest’aura divina era ancora più flagrante quando andammo a trovarlo, io e mio fratello Kamil. L’ombra spaventosa della sua morte aleggiava da alcune settimane su tutta la famiglia, la potevamo sentire avvicinarsi furtivamente. Potemmo intuirla, dalla sua carnagione sempre più diafana che lasciava trasparire sul suo dolce viso sorridente, uno strano bagliore. La sua pelle diventava quasi fosforescente. Dentro di sé era già davanti al sole divino ma sentivamo che Dio, nella sua infinita bontà, ce lo lasciava ancora per qualche giorno, forse qualche settimana! Lo abbiamo implorato per questo. Non ancora Signore!!!
Pregavamo senza tener conto delle sue sofferenze, di cui non faceva mai parola, ma che s’intuivano dai suoi lineamenti tirati nonostante il suo affabile sorriso. Eravamo egoisti dell’egoismo che genera l’amore trascendente. Ci rifiutavamo di vedere in lui quel corpo benedetto che tanto sforzo sul sentiero di Dio ha consumato. La sua anima luminosa ci accecava con il suo splendore e mostrava su di lui un’eterna giovinezza.
Rifiutavamo di concedergli il diritto di lasciare questo involucro terreno maltrattato da una vecchiaia consumata nel dono di sé, nella preghiera, nell’abnegazione, nel carcere, negli arresti domiciliari; e molto prima, nella corsa ad ostacoli per mettere in piedi il sistema di istruzione nazionale postcoloniale. Lo volevamo con noi per sempre! Corpo e anima!
Nel Libro del Destino era scritto diversamente; il suo inchiostro si era asciugato. Era scritto anche che avrebbe seguito le orme di colui che ci ha insegnato ad amare sopra ogni cosa: il Messaggero di Dio. Aisha (Dio la benedica) ha risposto ad una Compagno che le chiedeva se fosse successo che il suo benamato pregasse da seduto: “Sì, quando la gente lo ha consumato.” Anche noi lo avevamo consumato! Le sue incessanti lotte e la pesantezza del nostro accompagnamento avevano innalzato in alto la sua anima verso i firmamenti spirituali ma avevano eroso la sua forza, delicata di natura.
In quest’ultima visita, quindi, egli si sforzò di riceverci in quello che chiamavamo il suo “ufficio”. Era la stanza dove trascorreva la sua giornata sempre piena di impegni. Non assomigliava affatto al suo lussuoso ufficio di “direttore nazionale dell’ispettorato dell’istruzione” dove, da bambina, lo andavo a trovare di tanto in tanto. Questa stanza era sì un luogo di lavoro ma molto più modesto e non evocava in nulla ciò che dovrebbe essere un ufficio all’occidentale.
Eppure per noi questo posto odorava di Eden. “Mama Khadija” lo incensava regolarmente con “oud”, sebbene la presenza di questa donna dall’anima di gelsomino fosse sufficiente per profumarlo come lei profumava le nostre vite. La famiglia vi si radunava lì come se fossimo già intorno alla fonte sacra del “Kawtar”. Ci ubriacavamo con questi bicchieri da tè preparati dalle mani generose di questa madre adottiva! La nostra madre del cuore! Il tè non è mai stato più prezioso! Il tè non è mai stato più dolce!
In questo santuario di pace, a nostro padre piaceva sedersi a gambe incrociate all’angolo del tappeto, di fronte alla qibla, per leggere, scrivere o ascoltare le notizie del mondo su stazioni radio ben selezionate o alla televisione. Intorno a lui, modesti mobili bassi vennero usati per mettere a portata della sua nobile mano alcune opere della sua ricchissima biblioteca. Servivano anche per conservare i suoi molteplici integratori e prodotti naturali. I libri hanno continuato ad alimentare la sua mente acuta e curiosa fino al suo ultimo respiro, e gli integratori hanno sfidato i mali che la crudeltà del tempo infliggeva ai suoi ottant’anni superati. C’era anche un computer che ha imparato rapidamente a usare quando noi, più giovani di lui, non avevamo questa capacità. A volte gli piaceva sfidarci con alcuni dei suoi segreti informatici, gli occhi scintillanti della sua impareggiabile intelligenza.
Quando giungeva il momento della preghiera, nulla importava più. Il richiamo del muezzin risuonava come una tromba militare in una caserma. Lui, così accogliente e simpatico con i suoi visitatori, interrompeva bruscamente la discussione e nulla sembrava interessarlo al di fuori del suo tappeto da preghiera posto qualche passo più avanti davanti del suo posto di lavoro. La malattia non l’ha cambiato in questo. Non l’ha mai disertata. Ogni alba era lì, già a buon’ora.
Questo ufficio era, per questo, un luogo di ritiro spirituale poiché anche i suoi scritti, qualunque fossero i loro argomenti, erano un inno a Dio e una ricerca di senso. Tuttavia, era anche uno spazio di incontro e di ricevimento per i suoi visitatori. Ha cominciato a rimanere nella sua stanza solo quando la malattia lo sopraffece. Per questo, quando lo abbiamo trovato in questa stanza, siamo stati felici e abbiamo detto che dopotutto non era poi così grave!
Così, nella sua infinita empatia e sapendo quanto lo amavamo e soffrivamo nel vederlo ammalato, egli fece lo sforzo di accoglierci in questo spazio di vita quando già la morte lo abitava. Giusto per non rattristarci! Solo per darci un’ultima lezione di coraggio! Giusto per dimostrarci che “la volontà dell’uomo è al di sopra di tutto” come ci aveva insegnato per anni. Egli aveva combattuto l’ego all’ombra di un maestro, brillato nella sua professione, fondato una scuola di pensiero, scritto dozzine di libri, trascorso sedici anni in prigione, costruito intorno a lui un impero di cuori amorevoli?! Tutto questo con una salute precaria e un corpo fragile che avrebbe dato altre mille scuse per non far nulla con la propria vita…
Durante questa ultima visita, era lì in questo luogo che ci rassicurava, ma mezzo sdraiato. “Non possiamo essere sempre coraggiosi”, mi disse una volta. In quest’ultima visita aveva concesso una battaglia alla morte. La sua carnagione cerea ci sussurrava che essa era avanzata a grandi passi. Cercammo, mio fratello ed io, di non scoppiare in lacrime, ma il suo sguardo vivo ci sondava e ci leggeva come si legge un libro aperto. Certamente vedeva i pezzi dei nostri cuori infranti lacerarci dall’interno… selvaggiamente… senza pietà!
Non ricordo più bene la conversazione che ebbe la carità di avere con noi, come si asciugherebbero le lacrime delle nostre anime con mano compassionevole. I nostri sguardi silenziosi dicevano molto di più delle parole che non avevano più senso nella solennità del momento. Cercò così di consolarci, ma l’evidenza era lì! Sapevamo che questa era l’ultima volta che avremmo visitato questo paradiso terrestre.
Deve aver intuito il mio sgomento senza nome e la profondità dell’abisso in cui mi sono sentita precipitare, quindi mi disse con la sua consueta dolcezza: «perché non scrivi “ricordi con mio padre”?». Ho ricevuto queste parole come uno stoccata. Il mio cuore è iniziato a fermarsi. È stato un addio! Il dolore è stato travolgente. Impallidisco.
Tuttavia, abbiamo fatto quello che potevamo, io e mio fratello per rimanere degni e per rispetto di questo padre che ha passato la vita a presentarci il volto felice della morte. La morte non è la fine, ma l’inizio di un mondo migliore. Abbiamo acquisito questa certezza, ma è difficile vedere crollare il proprio mondo presente. Nostro padre era il nostro mondo, il nostro rifugio.
È così che mi consigliava di scrivere in sua memoria. Fino ad oggi, non so se era un segno di fiducia o un’ancora di salvezza per non sprofondare completamente nel mio abisso di tristezza. Forse era per annodare una sorta di cordone ombelicale oltre la tomba che mi avrebbe unito a lui nonostante le dimensioni che ci avrebbero separato?
Anche oggi, mentre scrivo queste righe, non riesco a trattenere le lacrime e a rendermi conto che il lutto non sarà mai elaborato.